Ad Aosta per il raduno
Il punto di raduno è davanti ai cancelli dell’Aeroporto Corrado Gex di Aosta di prima mattina. Alcuni sono arrivati in auto, altri di noi con l’autobus, e si sono goduti il paesaggio e le fortificazioni entrando in valle. Prima il Forte di Bard, che sorveglia la Dora dal suo sperone di roccia; poi il Castello di Vérres e quello di Gamba e infine, il Castello di Fénis, che con la sue torri a darci il benvenuto.
L’aria di metà dicembre è quella di montagna, pulita e pungente, a cui noi cittadini non siamo abituati. Ci aspettano due giorni intensi e il clima, come per farci pesare l’attesa, si presenta coperto da una nuvola bassa. È abbastanza rada da poter intravedere il cielo, ma se lasciasse spazio a un bell’azzurro limpido, la nostra “cena aziendale” potrebbe iniziare davvero bene. Per il momento non ci diamo molto peso. André Claude Benin, fondatore e CEO di Fiberdroid, nonché presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Jet Fighter Training, ci aveva avvisati: “Inizieremo con una sessione di briefing sulla teoria. Avrete tutto il tempo di capire come funzionano le cose.”
All’appello ci siamo tutti: Diego, il responsabile dello sviluppo web; Biagio, del supporto tecnico; Gabriele, project manager; e Jenny, la nuova collega del reparto amministrazione. Poi ci sono io, Fabrizio, a scrivere le storie che leggete. Ad aspettarci ad Aosta, André e Katia, che di Fiberdroid sono il cuore e la mente.
Prima di collaborare con questo team mi avevano avvisato: “André è un vulcano. Aspettati qualche sorpresa.” E la sorpresa è arrivata. Altro che cena aziendale: siamo ad Aosta per il battesimo del volo. Noi che le uniche volte che stacchiamo i piedi da terra è per prendere l’ascensore o salire su voli low cost per andare in vacanza. Quando ce lo aveva anticipato pensavamo scherzasse. Ora siamo di fronte alla torre di controllo che facciamo finta di essere tranquilli.
Quello che sembra un passatempo avventuroso ha anche una sua spiegazione seria. L’idea è valutare come un evento del genere può funzionare per organizzare i team building. Può sembrare stravagante ma non lo è affatto. Un gruppo di colleghi fuori dal loro ambiente di lavoro, che imparano una cosa nuova, come le basi del volo; che affrontano insieme quello che potrebbe sembrare un limite invalicabile, quel battesimo dell’aria che può bloccare a terra per la paura; e che sperimentano come le procedure e i controlli possono essere la chiave per far funzionare un team in ogni situazione. No, non è affatto un passatempo stravagante: è un progetto ben pensato, ne siamo tutti consapevoli.
Il briefing
Il briefing in classe è una lezione completa sul volo. Due ore, che proseguono anche a tavola perché non smettiamo di fare domande a Marco Seghezzi. Il nostro istruttore è una di quelle persone di montagna che, vista dalla città sembra un supereroe: guida alpina, pilota di alianti e istruttore di volo, oltre che in servizio di emergenza sugli elicotteri… abbastanza per una mezza dozzina di racconti incredibili, prima di iniziare la spiegazione.
Iniziamo con qualche cenno di aerodinamica. Marco Seghezzi ha anche il dono della sintesi: la materia sarebbe molto complessa ma lui ci spiega solo quello che serve per capire come un velivolo sta per aria. La chiave di tutto è la portanza: finché c’è quella, l’aria è tua amica. Una mossa azzardata e i filetti fluidi, i sottili stradi di aria che scivolano lungo le ali, si staccano e si rischia lo stallo. Il tono di Marco Seghezzi è tanto calmo quanto serio. Ci sentiamo come neopatentati: spaventati e rassicurati al contempo.
“Un pilota esperto è chi sa non mettersi in quelle situazioni dove la sua esperienza ha un limite.”
Una frase semplice ma chiara, che ci spiega tutto: volare è una cosa meravigliosa, ma va fatta con metodo, preparazione e responsabilità. Non ci si improvvisa piloti. Come non ci si improvvisa in nessuna professione: ci si prepara, si pianifica e si esegue con metodo; e quando serve, cioè sempre, si impara dai propri errori per migliorarsi.
Dopo l’aerodinamica passiamo alle basi della meteorologia. E qui, almeno per me, è la scoperta di un mondo nuovo. Se l’aria è quello che anima un aliante, il vento è ciò che bisogna saper trovare quando si guarda il cielo. Senza motore, il segreto per comandare il velivolo è trovare le correnti che lo sospingano. E a saper guardare, prima o poi se ne trovano. Prima di tutto, bisogna sapere bene dove ci si trova, per capire dove si vuole andare e come e se lo si può fare. Altro grande insegnamento che possiamo prendere in prestito dall’aeronautica e applicarlo al lavoro e alla vita in genere.
Volare ad Aosta, ci spiega il nostro istruttore, è qualcosa di impareggiabile perché le valli, i picchi e le correnti che scendono da un lato e risalgono dall’altro, possono essere un aiuto prezioso. Uno dei segreti, che l’occhio di un pilota esperto sa cogliere, è guardare il crinale delle montagne, per cogliere se e quando si formano delle nubi, che indicano il flusso di qualche brezza o di una termica ascendente. Un pilota sa che il sole, quando arriva, cambia tutto: la parete illuminata si scalda e ti aiuta a salire; dall’altro lato, possono crearsi delle turbolenze, che bisogna saper affrontare. Bisogna conoscere i luoghi, la stagione in cui si vola, le previsioni della meteo (qui la chiamano così, meglio che vi abituiate, anche se vi sembra strano).
Tutte queste cose vi servono per farvi un piano di azione a lungo termine: serve per avere una visione di insieme, su cui poter fare piani a breve termine in modo che, se cambia il vento, se siete stanchi o se dovete cambiare rotta, tutto si riesce a fare in sicurezza e confidenza. Visione a lungo termine, pianificazione a breve e azioni sicure.
L’ultima lezione, prima degli aneddoti di volo e di acrobazie, è sui comandi. Cloche per gli alettoni e timone di profondità. Pedaliera per il timone di direzione. Il velivolo può ruotare sui tre assi. Spostando la cloche a destra o sinistra, si alza l’alettone corrispondente e l’aliante rolla verso destra o sinistra, ruotando attorno all’asse longitudinale. Avvicinando o allontanando il timone, si può cabrare o picchiare: l’aliante beccheggia, ruotando attorno all’asse trasversale, e punta il naso verso terra o verso il cielo. Con i pedali si imbarda. Pedale destra, il velivolo ruota verso destra, attorno all’asse verticale; pedale verso sinistra, si gira a sinistra.
A parole è facile; provate a farlo tenendo un occhio all’altimetro, uno all'anemometro, uno alla bussola, uno alla linea dell’orizzonte e vi accorgerete di non avere abbastanza occhi. Far volare un aliante è questione di tempismo e precisione. Una manovra troppo delicata e il velivolo non risponde, una troppo decisa e si scompone. Il giusto mezzo, a saperlo trovare, è sempre il segreto.
Le checklist salvano la vita
Dopo il briefing la meteo ha deciso di non collaborare. Ne abbiamo approfittato per imparare le procedure di controllo dei velivoli. un aliante, un ultraleggero, un jet, sono tutti mezzi straordinariamente complessi e delicati: un buon pilota deve essere maniacale nel controllo del mezzo, tanto in volo quanto a terra.
“Le checklist salvano la vita”.
In attesa che il cielo si sgomberi, André e Marco Seghezzi ci illustrano come si prepara un aliante. Ancora in hangar, il pilota toglie le coperture alle ali e all’abitacolo. Poi controlla che la superficie delle ali, del timone e della fusoliera non abbia crepe o irregolarità. Si muovono i comandi, per vedere come rispondono alettoni e timone. Si controlla tutta la strumentazione di bordo: è più sicuro se a farlo e a controllare la procedura siano due persone diverse. Le checklist salvano la vita, ma bisogna rispettarle con precisione e rigore.
Noi lo capiamo quando bisogna regolare l’altimetro: “Ci sono due modi per impostare l’altimetro: o lo si registra con l’altitudine dell’aeroporto impostata come zero, oppure tenendo conto di quella rispetto al livello del mare. In ogni caso è importante tenere conto, per sapere a che altezza si vola e quanto lontano possiamo andare”. Un aliante, ci aveva spiegato Marco Seghezzi in classe, ha un ratio di 1 a 34: per ogni metro che perde, può farne trentaquattro in avanti. Poi, per sicurezza se ne contano meno, ma sapere quanto si è alti è vitale.
Dopo poco, André torna con due grossi zaini e chiede: “Chi va per primo?”
Ci guardiamo nervosi.
“Lei”
André sorride e non si scompone: “Certo, le donne per prima, per cavalleria.”
“…sì.” Azzarda qualcuno di noi.
Jenny non fa una grinza.
“questi sono i paracadute”, spiega André. “Non servono, ma se servono, servono. Quindi bisogna saperli mettere e saperli usare.”
Poi ci guarda e sdrammatizza: “Però non servono.”
Il paracadute per l’aliante è un grosso zaino che si fissa sulle spalle e sulle gambe. Si indossa lasco, con le cinghie morbide, e lo si fissa stretto – ma stretto, stretto! – solo una volta seduti. Se ci si dimentica, quando si salta, può fare danni. Però ce lo hanno spiegato in maniera più colorita.
Dall’hangar alla pista è tutto uno spingere e ruotare. Una persona al lato di ciascuna ala, con l’aliante trainato da un piccolo muletto fino alla fine della pista di rullaggio. A volare siamo in quattro, che seguiamo in processione muletto e aliante. Se non siete mai stati in mezzo a una pista di atterraggio, la sensazione è strana perché potrebbe capitare che qualcuno in volo richieda la pista per atterrare, e allora tocca fare tutto in fretta. A me sembrava di camminare in autostrada. Una sensazione strana davvero.
A fine pista, aspettiamo l’aereo che ci traini, ma le condizioni non sembrano migliorare. In più, sono quasi le quattro e ormai di luce ce ne sarebbe troppo poca per farci volare tutti quanti. Rimandiamo a domani, che la meteo dovrebbe migliorare. Qualcuno di noi, oltre a me, si sentiva come quando ti rimandano un compito in classe: sorridi ma la fifa è solo rimandata.
Il Comandante Milano
In albergo cerchiamo di darci un tono. Dopotutto, abbiamo fatto il briefing. Almeno di teoria adesso ne sappiamo qualcosa. In teoria.
Davanti a un caffè, Diego e Gabriele si confrontano sulle manovre:
“Quindi, tiro un po’ la cloche, viro a destra; spingo un po’ il pedale per accompagnare la manovra e cambio rotta.”
Biagio, che anche se non vola, un brevetto per pilotare i droni ce l’ha, aggiunge:
“Eh, a terra è facile dirlo. Voglio vederti domani: se sei pronto come oggi ti vedo bene!”
“Mah, veramente io ho visto lui più teso.” E indica me.
“Ero attento a prendere appunti, io.”
Il bluff non regge e piano piano ci scopriamo tutti frastornati e rincuorati per il rinvio.
Il momento non dura molto perché al tavolo ci raggiunge il Comandante Massimiliano Milano. Max per gli amici. Comandante, per tutti i colleghi e i passeggeri che si fanno trasportare sugli aerei di linea. Una lunga carriera come istruttore di volo e pilota di linea, Max è l’altra anima di Jet Fighter Training, l’unica A.S.D. italiana a disporre di un jet decommissionato nella sua flotta. Max non è un pilota; Max è IL pilota. Anche a terra. E si vede. Prende il suo posto a capotavola e inizia a studiarci.
Si vede da subito che non siamo nemmeno dei novellini. Provare a spaventarci sarebbe troppo facile. E inizia a parlarci dell’altro volo che dovremo fare. Sì, perché i voli sono due.
Ve l’ho detto che con André – e con Max – ci sarebbe stato da aspettarsi una sorpresa.
Il piano era: sabato teoria e aliante; domenica, se le condizioni lo avessero permesso, un volo sull’L-39 Albatros, il jet di addestramento per i piloti militari. Bene, pare proprio che domani ci saranno le condizioni. È una grande fortuna e un grande onore. Ma che per noi vuol dire fifa sommata ad altra fifa in un modo nuovo. E Max lo sa.
“Sul jet saremo in due, come sull’aliante. Io piloto nella posizione davanti a voi. Voi non dovrete fare nulla. Meno toccate, molto meglio è.”
Il Jet, un L-39 Albatross di fabbricazione cecoslovacca, è un capolavoro. Max ci spiega che lo hanno progettato a fine anni Sessanta e dal 1974 ci si sono addestrati i piloti di mezzo mondo. Ha i comandi meccanici: si vola sentendo il mezzo, come se fosse un guanto. L’elettronica c’è ma non sostituisce il pilota. Quando si sfreccia a oltre settecento chilometri orari è il pilota che fa i numeri.
“Saliremo in quota, circa dodicimila piedi, e da lì proveremo a fare qualche evoluzione. Niente di troppo difficile.” Siamo esaltati e spaventati al contempo. La prima volta in aliante è come con la bici, ci avevano detto. Beh, domani passiamo da andare con le rotelline a salire su una monoposto.
Un corso accelerato, non c’è che dire.
“Dopo che vi sarete seduti, André passerà a stringervi le cinture. Dovrete essere incollati al sedile.”
“In volo” riprende Max, “Dovrete tenere le mani in posizione di sicurezza. Pollici sotto le bretelle, come se steste tenendovi lo zaino, e mani che si aggrappano – forte! – alle cinture. Forte. Il perché lo capirete dopo.”
“In caso di emergenza” prosegue Max, “Dovremo eiettarci. Non succede, ma se succede dobbiamo essere pronti. Se lo reputerò inevitabile, appena vi darò il comando, dovrete prepararvi.”
Ci illustra i movimenti da fare per attuare gli sblocchi necessari per il sedile.
“Per evitare problemi peggiori, abbiamo disattivato il sistema di eiezione automatica. Quello è un meccanismo che possono usare i piloti militari. Noi, dovessimo averne bisogno, dovremo fare in un altro modo.”
Quello che ci spiega dopo ci fa correre un brivido lungo la schiena.
“Io metterò il jet in posizione di volo rovesciato. E solo quando vi dirò di farlo, potrete attivare la leva di sgancio del sedile. Da lì in poi sarete in caduta libera e dovrete ricordarvi di tirare la cordicella vicino alle bretelle.”
“Perché?” chiede uno di noi, frastornato.
“beh, è utile se vi piacciono i paracadute. Però, se avete fretta di arrivare a terra potete lasciarlo perdere.”
Una risata nervosa allenta la tensione. Qui si fa sul serio: non succede, ma se succede bisogna essere pronti. “ma tanto non succede.” Chiosa il Comandante Max.
Il battesimo del volo
La mattina seguente siamo in hangar presto. Una colazione asciutta e leggerissima, come hanno suggerito Max e André, e siamo pronti a ripetere le operazioni di posizionamento dell’aliante, ripassando tutte le fasi della checklist. Il cielo è terso: la meteo ha deciso di farci un bel regalo oggi.
La direzione del vento decide che partiamo da “27”, l’estremità est della pista. L’ordine di volo è quello deciso ieri. Jenny per prima, poi io, quindi Diego e Gabriele a chiudere. Mezz’ora ciascuno. Si sale in quota. Ci si sgancia dall'aereo che ci traina e si vola nel cubo acrobatico, una porzione di volume sopra l’aeroporto. Gli ultimi, che voleranno con il sole di mezzogiorno, saranno più fortunati e potranno allontanarsi un po’ di più.
André si cura di aiutarci a prendere posizione. Il passeggero siede nella posizione davanti. Ugo Vietti, il pilota, che nel frattempo è cambiato, è uno che sa il fatto suo. Solo una volta tornato a terra mi spiegheranno quando sia un manico: campione di volo acrobatico con venti anni di esperienza. Prima del decollo non lo sapevamo, ma lo intuivamo.
Jenny si siede, fissa le cinghie del paracadute, poi quelle del sedile. André chiude la capottina e dà l’ok all’aereo, che inizia a trainare. La partenza è lenta e i due che tengono le ali in posizione fanno qualche passo prima di lasciare la presa.
Aereo, corda e aliante si allontanano sulla pista, come un bambino che fa prendere quota al suo aquilone. E poi lo stacco. Lento e delicato, che a noi fa trattenere il fiato. Salgono leggeri, con il rumore di un piccolo motorino. Li vediamo alzarsi e iniziare la virata di posizione. Diego e Gabriele, che sono giovani e non miopi, possono vedere lo sgancio, con aereo e aliante che piano piano prendono due direzioni diverse.
L’aereo fa un giro completo e torna verso il nostro lato della pista, dove sgancia la corda e si appresta ad atterrare in uno spazio incredibilmente breve.
“I più bravi” mi spiega André, “quando sganciano la fune la fanno cadere quasi in verticale. E la fune quasi si arrotola su sé stessa al lato della pista.”
Siamo tutti col naso per aria, con l’aliante bianco che a tratti scompare nel riflesso del sole.
André sorride ed esclama, tutto divertito: “Ecco, ora inizia.”
È un attimo e vediamo il naso dell’aliante, ormai quasi allineato alla pista, abbassarsi. Prima poco, poi tanto, poi troppo. Ci scappa un urlo tra la gioia e il terrore.
Ugo Vietti ha iniziato un loop. Muso in picchiata, velocità che aumenta, e poi cloche al petto.
L’aliante risponde come un guanto alle dita di una mano: torna orizzontale, punta verso il cielo e gira su sé stesso. Un perfetto loop al rallentatore, che sembra non finire mai. Noi a terra siamo col fiato sospeso. Non immagino Jenny là sopra.
Sono troppo disorientato per seguire le altre evoluzioni. André parla di un “Fisler”, ma al momento non comprendo: sono il prossimo e sento come se mi girasse la testa.
Torno lucido solo una volta fissato al sedile. Tutte le manovre che precedono le ho seguite in maniera meccanica. Con una voce che mi continua a ripetere “visto? Non è niente di eccezionale. Si tratta solo di stare per aria abbastanza. E di scendere a terra abbastanza lentamente.”
Solo da seduto mi accorgo che sul vetro davanti a me c’è una cordicella.
Un sottile spago rosso lungo una spanna. Ce lo avevano spiegato: serve per avere un’idea immediata del vento e dell’inclinazione. Davanti alla cloche ci sono gli strumenti, che abbiamo regolato, ma lo spago è il fedele amico di ogni pilota. Devo ricordarmi di chiedere se gli danno anche un nome per scaramanzia. Io lo farei.
Vista da dentro l’aliante, la partenza è un’altra cosa. È davvero lenta. L’aereo non può dare strappi e si ha tutto il tempo per rendersi conto che si ha paura. Perché la paura c’è, inutile negarlo. Ma si ha anche tempo per capire che è normale, che sono in buone mani, e che fin tanto che seguo le istruzioni e le procedure, nell’abitacolo facciamo tutto al meglio possibile. Credetemi: è la sicurezza che serve.
Per raccontare un battesimo dell’aria potrebbe non bastare un libro intero. Voi potete farvi un’idea guardando i video dell’evento. Io posso raccontarvi tre cose, che nel video non si vedono.
Lo sgancio è un’esperienza mistica.
Quando il pilota dell’aliante decide di staccarsi dalla fune, il passeggero davanti ha una strana sensazione. In un attimo, si passa da essere trainati a oltre centocinquanta chilometri orari a iniziare a planare. La decelerazione non è tanto brusca, ma vedere l’aereo allontanarsi fa sembrare per un momento di essere immobili; fermi nello spazio a mille e cinquecento metri d’altezza. Come se foste attaccati a un lunghissimo filo che pende da un soffitto che non vedete. Le montagne in lontananza sono complici di questo effetto: all’inizio non si nota il minimo spostamento. Tutto sembra immobile. Sembra che il tempo si sia fermato, ma non dura che un paio di secondi. È qualcosa di così irreale che sembra di non essere nemmeno in volo.
Poi, i sensi si adattano e si inizia a fare caso a velocità minori, alle piccole turbolenze che agitano il velivolo, alla linea dell’orizzonte che beccheggia e rolla e al paesaggio che riprende a scorrere. quando si arriva volare a fianco della montagna è quasi come stare seduti in seggiovia.
Pilotare è questione di misura. E all’inizio è proprio quello che non si ha.
Una volta posizionati sopra la pista, mi arrivano le parole che avevo paura di voler sentire:
“Ora prendi la cloche, e imposta una virata a sinistra.”
Ugo Vietti sta parlando proprio con me: non ci sono altri qua sopra.
“Mi raccomando, imposta la virata delicatamente: cloche a sinistra e pedale sinistro all’unisono.”
La prima risposta che mi viene è: “Ma assolutamente no, grazie.”
Poi ci penso e mi dico: “E quando mi ricapita un’occasione del genere? Sono in volo su un aliante; seguito da un pilota esperto. La paura c’è, ed è giusto, ma va controllata.”
Ora, andare dritti non è facilissimo: bisogna sempre verificare che la velocità sia sopra un valore minimo o si rischia di perdere portanza. Per riprendere velocità bisogna puntare il muso leggermente verso il basso, e procedere beccheggiando lentamente ogni volta che è necessario ripetere l’operazione. Non facilissimo ma ancora fattibile.
Virare è un caos. Sempre con un occhio alla velocità, quindi all’inclinazione, bisogna inclinare la cloche per impostare i due alettoni in posizione opposta. Oltre a questo, il pedale che segue la direzione della cloche fa piegare il timone di coda e accenna un’imbardata che accompagna il rollio. Oltre a questo, bisogna dare un occhio alla bussola, per decidere quando la virata è sufficiente. Oltre a questo, un’occhiata all’altimetro è buona norma: siamo in alto, ma è bene sapere quanta quota si sta cedendo. Poi, se no si è troppo impegnati, uno sguardo al cordoncino rosso che vi siete dimenticati di chiamare per nome non guasta. Se sembra difficile, di persona lo è molto di più.
Credo di aver fatto due virate, una a destra e una a sinistra. Ma non ci giurerei troppo.
Lo sgancio è un esperienza mistica; un Fisler vi fa rivivere tutte le vite precedenti.
Dopo che Ugo Vietti ha ripreso i comandi sapevo cosa mi stesse aspettando: muso verso il basso, velocità in salita, accenno di picchiata e via.
Un giro completo al rallentatore.
Sono legato stretto: non c’è verso che mi muova.
Quello che si vede dal vetro è: orizzonte-terra-ancora più terra-orizzonte-cielo-cielo come non l’ho mai visto-terra che arriva dall’alto-terra-orizzonte. Il giro è così lento che sembra innaturale. Niente a che vedere con le montagne russe. Quindici metri di apertura alare permettono questo e altro.
Usciamo dal loop con velocità adeguata a eseguire un'altra manovra, che non mi aspettavo.
“Questa ti sorprende.”
E mi sorprende davvero.
Ugo Vietti punta ancora verso l’alto. Il muso è in perfetta verticale e ci rimane.
La velocità scende velocemente. Troppo velocemente per un altro loop.
Sono confuso, ma dura poco.
Prima di arrivare a stallare, Ugo Vietti fa ruotare l’aliante attorno alla punta dell’ala sinistra.
Un Fisler, come mi ha spiegato André. Un wingover, come sono andato a cercare dopo.
Quello che si vede da terra è un aliante che, sempre in posizione verticale, cambia idea e punta verso terra, prima di riposizionarsi in orizzontale.
Quello che si sente in cima alla manovra è il più profondo senso di sospensione di tempo e spazio che si possa provare. O almeno così è stato per me. Se ho capito bene quello che stava succedendo, per un attimo si ha come la sensazione di essere in assenza totale di peso, proprio mentre si è a metà della virata in verticale. Quello che arriva dopo è altra velocità, ma ormai, per tutta l’esperienza fatta in meno di venti minuti è cosa di normale routine.
L’atterraggio è un esercizio di stile, che Ugo Vietti compie senza il minimo sforzo.
Mi aspettavo una botta secca all’ultimo ma sono deluso e ammirato allo stesso tempo. È come se non ci fossimo mai staccati da terra.
Diego e Gabriele sono i prossimi in lista. Quando salgono in quota, il sole è abbastanza alto da permettergli un volo più completo. entrambi salgono a una quota maggiore. Entrambi riescono a volare anche nella valle a fianco. Io da terra sono un po’ invidioso, devo ammetterlo. E lo sono anche quando l’aliante fa più di un loop di fila. Però adesso, dopo il battesimo dell’aria, vedere la manovra da terra mi aiuta a riviverla. Ed è sempre una gioia.
Altro che Top Gun
Se qualcuno di noi pensava che col battesimo dell’aria il più fosse fatto, si sbagliava di grosso. Atterrato per l’ultima volta l’aliante, ci occupiamo di riportarlo all’hangar. Siamo tutti terribilmente infreddoliti. Aosta è in una valle meravigliosa ma quando soffia vento lo si sente tutto. E stare in mezzo alla pista per due ore non aiuta.
All’hangar ci aspettano il Comandante Max e Katia, curiosa di sapere come fosse andata.
Gabriele inizia a raccontare:
“Tutti bene, dopo Jenny è partito Fabrizio, poi Diego, poi…”
“Avete fatto andare prima Jenny?”
“…per cavalleria” aggiunge Diego, sorridendo.
“Codardi.”
Ha ragione, ma adesso possiamo riderci sopra.
Il tempo di fare i controlli al Jet e André e Max decidono che terremo lo stesso ordine di volo.
Jenny si arrampica sicura sulla fusoliera del velivolo, per sedersi nella postazione posteriore. Ancora una volta, André si assicura di fissarle le cinghie del sedile più strette possibile. Nella postazione di guida, Max inizia tutte le procedure per il rullaggio. Una foto di rito, dopo aver indossato il casco e i due sono pronti per dirigersi lungo la pista di rullaggio. Il jet accende il motore, col quale fa un mezzo giro e si avvia. Il tempo di arrivare in fondo alla pista, ruotare su sé stesso e mettere il motore al massimo. Da quando sentiamo il rombo a quando vediamo il velivolo passare davanti a noi è un attimo.
Il tempo di accorgersene e l’Albatros è già a più di duecento metri d’altezza, per continuare la salita. È tutto così veloce da lasciarci a bocca aperta. Anche seguire la traiettoria dell’aereo è più difficile. È un caccia militare, con la livrea mimetica: riusciamo a vederlo solo quando il riflesso del sole non batte sulla sua pancia grigia; appena passa a fianco alle montagne diventa letteralmente invisibile. Anche si riusciamo a sentirne il rombo, non siamo sicuri che sia dove stiamo guardando.
Da quello che riusciamo a percepire, le manovre sono nette e decise. Una virata, una contro virata. Si allontana per girare ancora e allinearsi alla pista. Scende come per atterrare, a una velocità esagerata. Si abbassa fino a sfiorare la pista. Poi risale, quasi in perfetta verticale. Spinto da una forza che non ci si immaginerebbe, per tornare a cedere quota più delicatamente. Ancora qualche virata e stavolta l’atterraggio è quello vero: l’aereo tocca terra come un ginnasta alle Olimpiadi. Quasi senza peso, come se fosse sui binari. Ora tocca a me.
Ripeto le operazioni di Jenny. Farle è più complicato che vederle. La prima sorpresa è quando mi siedo. L’abitacolo sembra molto più spazioso di quanto mi hanno detto. E anche la seduta è molto più dritta di quella quasi sdraiata dell’aliante. Le cinture sono strette da far male, ma quello non è un problema. È il casco che non riesco a far andare d’accordo con gli occhiali. Però quando riesco a tirare giù la visiera antisole, la sensazione di essere un vero pilota è definitiva. C’è gente che lo sogna una vita e io ho la fortuna incredibile di poter vivere questa esperienza. Me lo avessero detto prima non ci avrei creduto.
L’emozione è così forte che mentre ci stiamo dirigendo verso la pista mi viene un dubbio atroce: “non mi hanno dato il paracadute!”
Provo a calmare un attacco di ansia ma per qualche secondo non c’è verso. Poi mi ricordo del briefing con il Capitano Max Milano della sera precedente: già! Il paracadute è nel sedile…
La partenza è come quella di un aereo di linea?
Decisamente no. La sensazione è molto più forte. Prima di muoverci pensavo di essere premuto contro il sedile, ma quello non era niente. Con il motore a piena spinta, la mia schiena e il sedile sono una cosa sola. Ho le mani in posizione di sicurezza, come Max ci ha insegnato. L’aereo spinge. Spinge e sale. Sale e continua a spingere. Sorvoliamo Aosta in un fiato.
Puntiamo verso Punta Mez quando dalla radio sento:
“Ora metti una mano sulla cloche e prova a schivare la montagna. Fai piano.”
Ormai sono un pilota di grande esperienza: non è certo andare in contro a un costone di roccia a diverse centinaia di chilometri allora che mi impensierisce.
La cloche è incredibilmente leggera!
Sembra che il jet galleggi senza alcun peso. Sono delicato, ma troppo. Max, che ha sempre avuto il pieno controllo del velivolo, riprende in pieno i comandi. Non potevo vederlo ma credo stesse sorridendo. Senza fare alcuno sforzo fa compiere al jet una elegante virata di centottanta gradi, senza esitazioni o sbavature, sempre salendo di quota. Fatico a orientarmi ma dovremmo essere passati sopra Persod, Villeneuve e, a fine della virata, Ozein, dove riprendiamo l’assetto orizzontale. Sulla mia destra vedo la valle che apre al parco del Gran Paradiso. Da qualche parte là sotto ci deve essere il Pont d'Aël, ma sono troppo in alto, troppo veloce e troppo miope per vederlo.
Davanti a noi ci sono le cime innevate delle Punte di Pian Bessey, della Punta Garin e del Mount Emilius. O almeno credo. In queste zone ci ho sciato da piccolo ma riconoscerle in volo è tutta un’altra cosa. Siamo veramente in alto, anche se non riesco a dire quanto. Passiamo una di queste cime e sembra di toccarla.
Quando torniamo sopra la valle di Aosta Max chiede via radio: “Come ti senti?”
“Bene.”
“Fatto colazione come ti ho detto?”
“Leggera, sì.”
“Ottimo, allora andiamo.”
“Dove?”
“Eh…”
E inizia una virata. Sì, ma non una virata normale. Una virata stretta. Su un jet. Neanche il tempo di accorgermene che sono schiacciato verso il sedile. Tutto il mio corpo è schiacciato verso quello che mi sembra il basso. La schiena si piega, per quanto glielo permettono le cinture strettissime. Lo stomaco mi sembra appiattirsi sull’intestino; i polmoni mi sembrano sgonfiarsi. Le mani, fissate alle bretelle sono pesantissime: fatico davvero a tenerle al loro posto. La virata sembra interminabile. Perdo il conto di quanto stiamo girando.
Max riporta il jet in piano e chiede: “Tutto bene là dietro?”
“Sì”, ma penso “È stata dura”
“Ottimo, allora un altro giro, ma dal lato opposto”
Ora la virata è in senso orario.
Se possibile, mi sembra ancora più stretta di quella precedente.
La sensazione peggiore è quando finisce la virata è tutti gli organi tornano al loro posto.
Se avessi mangiato anche solo qualcosa di più che un caffè e una brioche salata, ora sarebbe in giro per l’abitacolo. Dove sono i sacchetti ce lo hanno spiegato, ma non ci sarebbe stato tempo di prenderli.
“Tutto bene?” chiede ancora.
Non posso far vedere quanto sono debole. Se me lo chiede è perché pensa ce la possa fare.
“Mai stato meglio.”
Mi sa che il tono lo ha capito.
“Bene, allora un bel tonneau.”
Questo lo conosco: giriamo sull’asse longitudinale.
Lo soffrirei meno delle virate, ma alla fine della sequenza è micidiale per me.
Per fortuna, Max imposta la manovra con calma e ho tutto il tempo di godermi un tratto in volo rovesciato.
Top Gun Maverick, eccomi.
“Ok ci siamo divertiti abbastanza. Ora alza lo sguardo.”
Disorientato, gli do retta. La mia posizione è leggermente rialzata e riesco a vedere il paesaggio davanti a me, oltre che ai lati. Il tempo di mettere a fuoco e mi rendo conto dello spettacolo.
A quella altezza e in quella direzione, se giro la testa riesco a vedere in una volta sola, sua maestà il Monte Bianco, il Cervino e, più in là, il Monte Rosa. Tutte e tre le cime in un unico, ampio colpo d’occhio.
C’è da restare senza fiato. Il Cervino mi ipnotizza. La sua forma inconfondibile si staglia tra tutte le altre. È qualcosa che dovrebbero vedere tutti, se ne hanno l’opportunità. Quelle che da terra sembrano montagne lontane tra loro, qua sopra sembrano a portata di mano. Potremmo raggiungerle in un attimo. È un senso di libertà infinito.
Un passaggio a volo radente è l’ultimo regalo che mi fa il Comandante Max.
Visto dall’abitacolo è come sfrecciare rasoterra a una velocità incredibile. Più scendiamo, più la sensazione di velocità è irreale. Le auto, là sotto sembrano tutte immobili.
La risalita e la manovra di atterraggio sono un tutt’uno.
“L’abbiamo tirato fino a quattro G e mezzo...non siamo andati male. Così adesso sai di cosa scrivi quando parli di aerei e di voli.”
Sono commosso e grato. È una sensazione di euforia che non mi lascerà per tutto il resto della giornata.
Vedere il turno dei colleghi da terra è come ripassare una lezione.
Il thè dopo l’esperienza è come un raduno collettivo. Non abbiamo smesso di parlare delle manovre e delle sensazioni. Ormai che siamo esperti, sappiamo tutto di come si imposta un atterraggio, di quanto sia importante tenere d’occhio gli strumenti e di come si fa una cabrata fatta bene. Gli altri piloti al bar dell’aeroporto ci sentono e sorridono tra loro, ma probabilmente ci sono passati anche loro anni prima.
Ormai quella del volo è una mania che ci ha presi tutti, e questo c’era da aspettarselo.
Quello che non immaginavamo è quanto questa esperienza sarebbe stata formativa per l’intesa del team. Nel viaggio verso casa, i discorsi sul volo lasciano spazio a quelli di lavoro. Lo spirito è come rinnovato: sappiamo che è importante pianificare e che le emergenze ci sono e ci saranno. Sappiamo che ci può essere insicurezza, ma che questa non può impedire a un gruppo di pensare lucidamente alle alternative e alle decisioni da prendere, anche sotto stress. Sappiamo che se abbiamo imparato a volare, anche sa da principianti, possiamo imparare a gestire qualunque cosa.